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Immagine del redattoreAlessandro Masulli

La chiesa di San Domenico di Somma Vesuviana come luogo di sepoltura e di antiche memorie

Aggiornamento: 31 ago 2022

La nobile committenza che operò all’interno del complesso di San Domenico della Terra di Somma, non solo finanziò nel tempo la realizzazione di una serie di dipinti, pale d’altare e statue, ma privilegiò la chiesa anche come luogo di sepoltura e d’antiche memorie.

L’attenta lettura di queste specifiche documentazioni su marmo non solo ci permette d’individuare quale fosse il rapporto particolarmente stretto che i Padri domenicani avevano con la nobiltà locale, ma ci indica soprattutto lo status sociale e il ruolo, che i nobili detenevano nell'antica città di Somma. San Domenico, peraltro, oltre ad una ricca quadreria, conserva, anche se deteriorate dal tempo e dall'incuria umana, qualche lastra funeraria e commemorativa di alcune famiglie nobili fra le più importanti ed antiche. Lo storico Domenico Maione ci attesta, per primo, che in San Domenico ai piedi dell'altare maggiore vi era un' iscrizione sulla sepoltura di Francesco Corrai, Governatore della Città di Somma nel 1594.

La famiglia Cito, in particolare, pose ai piedi della balaustra della monumentale chiesa una lapide tombale, del tutto abrasa dal secolare calpestio, privilegiando la sepoltura di un loro defunto nelle cappella funeraria sotterranea. Si tratta del nobile Marc’ Antonio Cito (1593 – 1618), figlio di Giovanni Alfonso e Sarra Piacente, capitano dei cavalli nel 1617. Essendo inviato con la sua compagnia a guardia delle spiagge della Calabria per frenare eventuali sbarchi dei Turchi, si ammalò gravemente e morì il 17 novembre del 1618 nella Terra di Somma. Fu sepolto nella Chiesa di San Domenico con grande dolore del fratello Anacleto (+ 1653), famoso giureconsulto, che ne curò meticolosamente la lapide tombale. L’abate Domenico Maione, primo storico di Somma, attesta la presenza in loco di questa famiglia, tra le più antiche di Rossano, già nel 1575 con Giovanni Paolo sepolto in S. Maria del Pozzo. In un articolo sulla rivista Summana del compianto Raffaele D’Avino e di Angelandrea Casale, gli autori fanno riferimento ad un palazzo Cito in piazza Trivio (il palazzo dove è ubicato attualmente il Caffè Masulli); quel palazzo, invece, è sempre appartenuto alla famiglia Vitolo – Firrao della Baronia di Petrarola a Gaudo. Lo stabile, la cui entrata si affaccia sul largo San Giorgio, fu venduto nel 1767 dai Padri Domenicani di Somma, con atto del notaio Giovanni Andrea Genzano di Napoli, a d. Giuseppe Vitolo per la cifra di 250 ducati di carlini d’argento.


Il palazzo Cito, invece, è quello che gli stessi Vitolo, successivamente, nella seconda metà dell’ Ottocento, rilevarono dalla nobile famiglia rossanese nella pubblica piazza al Trivio, dove attualmente è collocata la statua di San Giuseppe Moscati. Il palazzo, infatti, è proprio quello dietro le spalle del santo. Quindi non bisogna confondere la piazza Trivio, oggi piazza Giacomo Matteotti, con l’antico slargo al Trivio, dove convogliavano le attuali strade Amendola, Angrisani (Dogana vecchia) ed E. Filiberto. Da sempre, comunque, la memoria non solo ha rappresentato la forza del potere nobiliare e del loro prestigio, ma è divenuta anche strumento di comunicazione della loro forza sociale: l’oblio significa condannare all’estinzione ideologica della nobiltà, una sorta di damnatio memoriae imposto dagli eventi della storia, come attesta l’archeologa lucerina Anna Castellaneta. Le lapidi, le tombe presenti all’interno di una chiesa hanno, quindi, il fine di superare il pericolo dell’estinzione della memoria, quasi una sorta di fontana dell’immortalità dove la scrittura e i simboli diventano strumenti di comunicazione fra il mondo dei vivi e quello dei morti: due mondi in stretta coesione, la cui coesistenza è garantita dai canali culturalmente predisposti per la loro comunicazione, nei tempi e nei luoghi adatti. Le lapidi, quindi, diventano strumento di perpetuo elogio funebre, attraverso cui l’aristocratico superava la morte fisica; in tal modo esso continuava a vivere non solo nella memoria familiare ma, attraverso le parole incise alle future generazioni. Gli elogi funebri sono densi di metafore e seguono una retorica che ha proprie regole e proprie tecniche in cui, di essenziale importanza, sono le doti d' intelligenza, di nobiltà d’animo e di fervore religioso: ciò che culturalmente può essere definito un nobile atteggiamento.


Tra la produzione artistica della chiesa di San Domenico di Somma Vesuviana spicca, nella terza cappella a sinistra di chi entra, la lapide muraria dedicata a Diego (Didaco) d’ Andrea: un nobile cavaliere appartenente ad un’antica famiglia originaria della Provenza. La sua gens, ai tempi di re Carlo I d’Angiò, si stabilì a Napoli dove fu ascritta fuori Seggio. Nel 1311, tale Gerardo d’Andrea fu nominato da re Roberto II d’Angiò castellano di Castel Capuano e Signore di Mottola in Terra d’Otranto. L’iscrizione funebre così recita in latino: Trattasi, quindi, di Diego d’Andrea (Napoli, 1688 – Somma, 1748), 2° marchese di Pescopagano. In realtà, Diego era primo marchese in quanto il diploma di nomina del padre arrivò in ritardo, a morte già avvenuta del genitore. Sposò, il 21 aprile del 1709, Donna Lucrezia Mormile (1694 – 1797), 6^ duchessa di Campochiaro dal 1758 per successione del fratello Luigi Mormile, figlia del Duca Don Francesco e di Maria Elisabetta Mastrilli dei Marchesi del Gallo. I Mormile possedevano numerose proprietà a Somma. A tal riguardo, Valerio Mormile comprò nel 1599 dai nobili Caracciolo una casa palaziata al burgo (attuale Piazza Vittorio Emanuele III). Si tratta di quell’ immenso palazzo che attualmente ingloba palazzo Torino e palazzo Giusso. La traduzione letteraria, tuttavia, non solo risalta che Diego era figlio di Gennaro (1637 † 1710), Reggente del Consiglio Collaterale, marchese di Pescopagano, ma anche nipote di quel Francesco (1625 † Candela, 1698), dottore in legge, celebre avvocato nella storia del foro Napoletano, giudice della Vicaria, avvocato fiscale della Sommaria e consigliere del Sacro Regio Consiglio; scrisse numerose opere tra cui Risposta al trattato delle ragioni della Regina Christianissima sopra il ducato del Brabante e degli altri stati nella Fiandra.

Nella lapide, inoltre, si fa menzione alla moglie Lucrezia Mormile e ai quattro figli maschi, che posero questo monumento tre anni dopo la morte del padre, avvenuta ad anni sessanta, mesi cinque e giorni sette: Gennaro d’Andrea (1711 – 1785), marchese di Pescopagano; Giulio Cesare(nato nel 1714), Patrizio di Lucera, Presidente della Sommaria; Francesco (nato nel 1715), Patrizio di Lucera, Cavaaliere dell’ Ordine di Malta dal 1746; Michele (1717 – 1787), Patrizio di Lucera, Canonico del Duomo di Napoli.


La seconda lastra tombale - 100 x 188 in marmo bianco, bottega napoletana - menziona d. Nicola Mormile (Somma 3-8-1654; ivi + 19 - 11 - 1726), patrizio napoletano, dei duchi di Campochiaro, che sposò l' 8 dicembre del 1697 Donna Faustina de Luca, Duchessa di Castelpagano, Marchesa di Macchiagodena, Baronessa di Sant'Angelo in Grotta e Baronessa di Bottone, figlia ed erede del duca d. Vincenzo e di Eleonora Correale. Dal matrimonio nacquero: d. Troiano nel 1699, patrizio napoletano e cavaliere del sedile di Porta Nova, che morì nel 1730 a Somma e tumulato in Santa Maria del Pozzo; d. Ottavio (1701 - 1752), 1° duca di Castelpagano, che ereditò i titoli materni.

D. Nicola Mormile - figlio di d. Luigi (1624 - 1696), 3° duca di Campochiaro, e di Lucrezia Guindazzi (+ Somma 1707) - fu caritatevole verso i poveri, sostenendoli con continue opere di bene. Indossò il cilicio nell'ultimo periodo della sua vita, sottomettendosi con una scelta obbligata.


Vi era ancora - attesta lo storico Francesco Migliaccio nelle sue notizie inedite - un'altra cappella gentilizia della famiglia Vallerano, dedicata a S. Maria Maddalena, nella quale nel 1743 fu sepolto d. Antonio e nel 1759 d. Andrea. Lo stesso Andrea che, come vediamo nella foto sotto, fece restaurare nel 1755 una cappella in San Domenico sotto il titolo di S. Maria Lauretana, dove giacevano i resti mortali della sua nobile famiglia. Erano le stesse cappelle?



In detta chiesa vi era anche il sepolcro e cappella gentilizia di diritto patronato della famiglia Rossi, nella quale, nel 1742, furono sepolti: nel 1742, la figlia Elena; nel 1744, la figlia Eleonora; nel 1764, il figlio Francesco; nel 1775, infine, l'altra figlia Laura. lo storico Angelo Di Mauro attesta nei suoi scritti numerose personalità: Rossi Francesco, sindaco; Rossi Giuseppe, canonico; Rossi Tolomeo, giudice.

Un patrimonio, insomma, da tutelare, conservare e valorizzare.

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