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Immagine del redattoreAlessandro Masulli

Somma Vesuviana, storie di guappi delitti e malandrini (3^ parte)


Nei paesi civili è la giustizia che vendica le offese e punisce i delitti, ma una volta nelle nostre vecchie contrade, dove il sole della civiltà non mitigò ancora i costumi, era l’offeso che si vendicava col suo offensore; e quindi in luogo della giustizia trovavamo la vendetta personale, come affermava l’etnologo e missionario trentino d. Ernesto Cozzi (1870 – 1926).


Continuano in questo articolo, laddove avevamo interrotto, le storie di guappi, delitti e malandrini attraverso un’ attenta ricostruzione basata sugli scritti inediti dell’ing. Vincenzo Romano. Un cammino che ci offre un quadro alquanto inedito di un mondo ormai estinto, soppiantato da quella contemporaneità che ha spazzato via non solo il grande passato, ma soprattutto le sue contraddizioni.


Nel 1949, Gennaro G., padre di famiglia abitante in via Colle, per proporsi da paciere tra Vincenzo E. A. e la moglie venne colpito a morte. Lasciò la consorte e quattro figli, di cui una femminuccia di soli pochi mesi d’età.


Nel 1951, Pasquale D. - uomo alto e forte, ma dal carattere prettamente cordiale – fu provocato da tale Gennarino, decisamente mingherlino, per il godimento di un albero posto a confine tra le loro proprietà in montagna. I due, comunque, vennero alle mani e, com’è ovvio, Gennarino, il più debole, ebbe la peggio. Per vendicarsi dello sgarbo, allora, il malmenato preparò subito la vendetta. Spalleggiato da alcuni accoliti, Gennarino tese l’agguato a Pasquale, sferrandogli una serie di colpi all’addome con un rampino. La gravità delle ferite fu così tale che, dopo alcuni giorni di agonia e sofferenze, Pasquale cessò di vivere, lasciando moglie e figli.


Nel giugno del 1953, Enrico alias ‘o sfregiato, mentre tornava a casa con la moglie, fu ammazzato in via Monaciello, dove risiedeva. Per i suoi trascorsi malavitosi, andava sempre armato di fucile e protetto di un busto corazzato, temendo, prima o poi, l’ineludibile vendetta. Quella notte la corazza non fu determinante a salvargli la vita. La moglie restò gravemente ferita, ma salva.


Nel 1954, Antonio D. M. del quartiere Casamale, mentre stava realizzando una costruzione al confine della proprietà di Sabatino, alias Sabatiello, fu richiamato animosamente da quest’ultimo, poiché la costruzione non rispettava la giusta distanza dalla sua proprietà. Gli animi si accesero: Antonio, senza esitare, imbracciò il suo fucile e lo ammazzò. L’uomo finì in carcere.


Michelino ‘o ciclista - proveniente dalla masseria Buglione di Saviano e con l’officina di biciclette a Rione Trieste – assumeva di solito atteggiamenti guappeschi. Una sera del 1956, in piazza Vittorio Emanuele III, redarguì pesantemente il suo cliente Giovanni R., figlio di possidenti e proprietari terrieri, che gli aveva commissionato la riparazione di una bicicletta. Non avendo, a suo dire, provveduto al pagamento del debito, Giovanni fu schiaffeggiato pubblicamente tra la gente, assorbendo amaramente l’umiliazione subita. La vendetta non tardò ad arrivare. Difatti, il mattino seguente lo scontro tra Giovanni e Michelino si concluse amaramente nell’officina, dopo le prime schermaglie verbali. Alle pesanti offese, il Romano rispose con la pistola, facendo fuoco su Michele e uccidendolo sul colpo. Il corpo dell’uomo, coperto da un lenzuolo bianco, fu visto dai passanti e da alcuni studenti il giorno dopo ancora disteso davanti all’edicola votiva della Madonnina Immacolata all’imbocco di via Pigno e Rione Trieste.


Nel 1957 – in strada Bianchetto nei pressi della chiesetta di S. Maria delle Grazie a Palmentole - Gennaro D. P., padre dell’allora tredicenne Vincenza, uccise a colpi di fucile il giovane Pietro B., che aveva tentato di macchiare l’onore della piccola figlia.


Per continue e reiterate offese ed ingiurie tra due cognate, di cui una vedova con figli piccoli, ebbe inizio una tragica storia in paese che si concluse con il sangue. La vedova si recò dai carabinieri per sporgere denuncia per gli insulti ricevuti. Il comandante della compagnia locale, non ravvisando alcuna ipotesi di reato, le suggerì confidenzialmente di ricambiare la propria cognata con la stessa impertinenza vocale. La vedova, che apparteneva ad una numerosa ed apprezzata famiglia, organizzò una bella spedizione punitiva alla cognata. Una domenica, giorno di chiesa, all’uscita della Santa Messa a Rione Trieste, uno dei fratelli della vedova scagliò contro la donna del materiale fecale. L’ offesa, anche in questa situazione, non tardò ad arrivare. Uno dei fratelli della vedova, Giuseppe D. P., del tutto estraneo all’accaduto, mentre si stava recando col suo calesse nel fondo di sua proprietà, fu assassinato incolpevolmente da alcuni sicari. I mandanti, cognata della vedova e marito, furono condannati e incarcerati. Anni dopo, scontata la pena, i due coniugi ripresero la normale vita, mentre i parenti dell’ucciso iniziarono a programmare l’inevitabile vendetta. E così fu. Una sera del 1958, la coppia, ritornando dallo spettacolo cinematografo, fu raggiunta da una serie di colpi di fuoco in via Bosco. Il marito restò ucciso, mentre la moglie gravemente ferita, si salvò.


Era una calda giornata di agosto del 1961, quando alcuni colpi di fucile squassarono il piccolo e tranquillo abitato di via Pigno. Il vocio tra le persone non era rassicurante: c’era un morto. La notizia iniziò a rimbalzare da una parte all’altra del quartiere. Sul posto, accorsero subito i familiari e le forze dell’ordine. Il giudice sarebbe arrivato solamente il giorno successivo per la rimozione del corpo. La vittima fu vegliata per l’intera notte dai carabinieri. Non erano ammessi i curiosi, ma consentita la sola presenza dei familiari. Si trattava di Paolo N. di Rione Trieste: un bravo giovane di umile famiglia. Nulla trapelò sulle cause della morte e sull’identità dell’assassino o degli assassini. Solo dopo circa qualche anno, il caso volle che durante un’ animata discussione tra un zio e un nipote della famiglia Romano, dirimpettai dell’ucciso, il giovane nipote inveì contro lo zio con epiteti ingiuriosi e minacciosi, accennando velatamente alla morte del giovane Paolo N.

Lo zio, intimidito dalle minacce del nipote, denunciò l’accaduto alle Forze dell’Ordine, che iniziarono ad indagare sul nipote e il proprio padre. Oltretutto, uno zio del defunto Paolo, tale G. S., testimoniò successivamente di aver assistito di persona all’assassinio di Paolo, confermando che l’uccisione era stata perpetrata proprio dai Romano, padre e figlio. Con l’ammissione della colpa, i due furono arrestati e condotti in carcere. Il fatto, all’epoca, destò un enorme stupore per tutto il contado, considerata anche la posizione sociale della famiglia. Si cercava di capire, però, la motivazione dell’ assurda uccisione. Paolo N., si scoprì alla fine, avrebbe pagato la vita, perché la sua famiglia avrebbe favorito la fuitina di una figlia del dirimpettaio R. Una motivazione, all’epoca, assurda e senza significato, ma pagata con la morte di un innocente uomo. La famiglia Napoletano, comunque, pagò cara questa intromissione. Scontata, tuttavia, la breve pena, il giovane R., appena libero, decise di far pagare cara la vita ai testimoni. Il primo a cadere sotto la rabbiosa vendetta del più giovane R. fu l’ incolpevole cugino, figlio di quello zio che aveva dato inizio alle indagini. Seguì a breve l’assassinio del testimone chiave Gennaro Sirico, mentre si salvò, benché ferito, Giosuè G.


Siamo nel 1962, Pietro A., innamorato di Rosa - dopo aver trascorso la serata nella sala da ballo in via Pigno, da poco inaugurata - nel far ritorno a casa fu ferito in via Bianchetto da alcuni uomini. Il giovane fu ritrovato immerso nel sangue, la mattina dopo, dal carrettiere Angelo E., mentre percorreva la strada per recarsi al mercato ortofrutticolo di Napoli. Il cavallo, notando la figura umana nella siepe dimenarsi, iniziò ad imbizzarrirsi, attirando l’ esterrefatto carrettiere. A nulla valsero i soccorsi, Pietro morì poco dopo in preda a forti ferite. Alla base della morte, forse, l’amore contrastato per la giovane Rosa.


Nel 1963, Antonio C. della contrada Tossici di Piazzolla di Nola fu assassinato nel lagno Regaglie in località Seggiari. L’uomo, secondo dicerie, avrebbe cercato di insidiare la cognata. Del delitto fu indagato il marito della donna. Nel giudizio finale, però, fu assolto per insufficienza di prove.


Nel 1969, i giovanissimi fratelli Gennaro e Pasquale litigavano continuamente fra loro. C’era una sorta d’invidia, esaltata dal fatto che la mamma riservava più attenzione ad un figlio che ad un altro. In un momento di forte squilibrio mentale, Gennaro esplose un colpo d’arma da fuoco al fratello Pasquale, che gli procurò l’amputazione di una gamba. Per il misfatto, Gennaro, ritenuto insano di mente, fu associato alla detenzione in manicomio. Intanto il tempo trascorreva inesorabilmente. Pasquale - di bella presenza, alto, giovane e con l’ausilio della protesi alla gamba amputata - si muoveva agevolmente, svolgendo l’attività di commercio della frutta col padre. Il tutto sembrava procedere bene, quando Pasquale venne barbaramente assassinato sulla via che conduce tuttora nella località S.M. a Castello. Non si seppe mai il colpevole, anche se in paese, all’epoca, le dicerie associavano la morte dell’uomo al sistema imperante dell’usura. La notizia della morte arrivò anche al fratello Gennaro, detenuto in manicomio, il quale, dopo aver appreso del misfatto, entrò in una profonda crisi esistenziale al punto di portarlo alla morte. Il fatto, all’epoca, destò molto stupore in paese. In due giorni i familiari dovettero partecipare a due funerali.


Nel 1970 in località Seggiari, ai confini con Ottaviano, tale Antonio C. ammazzò con un colpo di fucile Pietro C., reo di aver attraversato più volte lo spazio del proprio cortile privato. Il comportamento di Pietro non fu affatto ritenuto accettabile da Antonio.


Un pomeriggio di domenica del 1985, infine, una discussione tra amici sfociò in una lite tremenda. Il gioco a carte, tanto di moda nei circoli sommesi, determinò una briga tra Luigi R. alias o’ brutt e Carmine G. Luigi aggredì brutalmente il più giovane Carmine, riempiendolo di schiaffi. La vendetta anche stavolta non tardò ad arrivare: Carmine ritornò armato di pistola e uccise il rivale. Considerata la buona condotta e la mancanza di precedenti penali, Carmine, dopo pochi anni di reclusione, fu scarcerato.


I nostri racconti terminano qui, poiché sull’intero territorio vesuviano e napoletano iniziava ad aumentare un nuovo fenomeno criminale, denominato Nuova Camorra Organizzata, che iniziò a imperversare sulla scena sociale e che coinvolse un esercito di affiliati, incutendo paura in ogni dove mietendo numerosissime vittime.


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